APPROFONDIMENTI

MATERIALI RELATIVI A TEMI TRATTATI


aprile 2020




VIA CRUCIS BIANCA di Lucio Fontana


Sintesi visita virtuale per il CC NEWMAN
A cura del Servizio didattico ufficiale per il Museo Diocesano di Milano
 Maria Elisa Le Donne per Ambarabart



Lucio Fontana è noto in quasi tutto il mondo per i suoi tagli netti su tele monocrome, per l’esito di un gesto violento, assoluto e ripetuto… questi ultimi 10 anni della sua opera sono stati capaci di mettere in ombra una produzione molto diversificata.


Rientrato a Milano nell’Italia pre-bellica Fontana si era fatto notare come grande artista, ceramista, mosaicista, scultore, ma si era anche avvicinato a mezzi inconsueti come il neon, la radio, la televisione.
Il secondo ritorno in Argentina coincide con la II  Guerra Mondiale; qui nel 1946 con i suoi studenti lancia il Manifesto Blanco.
Era da poco arrivata la prima fotografia della Terra dallo spazio… per Fontana è l’inizio di qualcosa di nuovo: nulla sarà più come prima  “La materia, quella classica, doveva essere abbandonata completamente, era tutto un altro problema, il problema di una dimensione nuova […] Non ci interessa che un gesto, compiuto, viva un attimo o un millennio, perché siamo veramente convinti che, compiutolo, esso è eterno”.


Nel 1947 Fontana è di nuovo a Milano dove nasce il Manifesto dello Spazialismo. Fino a quel momento ammirato e stimato come ceramista e scultore, nel 1949  presenta il suo primo Ambiente Spaziale iniziando così a circondarsi di una pessima reputazione. Già nel 1947 con i primi “buchi ” intitolati Concetti spaziali, proprio a Milano, erano iniziate le prime ironie.
Fontana rompe le barriere bidimensionali del quadro, liberando una dimensione altra, oltre i confini materiali dell’opera: nelle sue opere entra la luce.


Quasi dieci anni dopo, nel 1955 Marco Zanuso progetta la cappella per la Casa Materna Asili Nido Ada Bolchini Dell’Acqua, un istituto di beneficenza milanese; egli chiama con sé Lucio Fontana (con cui aveva già collaborato).
Fontana realizza quattordici formelle ottagonali in ceramica bianca smaltata, brevemente incisa. Non poteva che nascere a  Milano questa via Crucis, dove Ponti stava pensando di ricostruire la città su moduli diamantini, perfetta e trasparente come un cristallo, come una seconda possibilità.
Ma il bianco di Fontana non è il bianco di Piero Manzoni, suo vicino di studio: il bianco di Piero è opaco, il bianco di Fontana qui è lucido. Sceglie uno sfondo bianco per entrare in sintonia più facilmente con la cappella e sceglie un fondo bianco che “ha lo stesso valore dell’antico fondo oro: accoglie e riflette la luce, rinvia a messaggi trascendentali, a quell’atto dello spirito svincolato dalla materia’ […] che sottintende una concezione profondamente religiosa”. Manca solo il caldo dell’oro, c’è uno spazio comune ma è uno spazio più meditativo che sacramentale.
È in questa via Crucis del 1955 che appaiono i primi graffi, così profondi da parer tagli. È tutto dolorosissimo, un graffio profondo accompagna e sottolinea come un’ombra la figura di Gesù.
Iniziò a tagliare le tele nel 1958, i primi tagli erano fenditure brevi e lasciavano sfilacciato l’ordito violato, nascevano dai graffi.
Ancora nella sua ultima intervista prima di morire nel 1968 diceva: “allora faccio un atto di fede, io buco e passa l’infinito da lì… chi vuole capire, capisce, se no continua a dire che son <bus>e ciao”. Da vero creatore Fontana aveva un unico cruccio: la fine dello spazio; sacrificò a questa ricerca di un oltre le sue mani, pur bravissime.

È possibile vedere i silenziosi primi tagli della Via Crucis Bianca di Fontana al Museo Diocesano di Milano che gli dedica una ricca sala, dove sono custoditi, insieme alla Via Crucis, alcuni preziosi bozzetti per il Duomo di Milano.



febbraio 20219
CAMMINA, CAMMINA...trova cascine, trova villaggi...   Letture da " I Promessi Sposi "a cura della Prof.ssa Lucia Prestipino
      

Il viaggio di Renzo per raggiungere l'Adda, attraverso le campagne  della Martesana.


Scappa, scappa, galantuomo: lì c’è un convento, ecco là una chiesa; “di qui, di là,”si grida a Renzo da ogni parte. In quanto allo scappare, pensate se aveva bisogno di consigli. Fin dal primo momento che gli era balenato in mente una speranza d’uscir da quell’unghie, aveva cominciato a fare i suoi conti, e stabilito, se questo gli riusciva, d’andare senza fermarsi, fin che non fosse fuori, non solo della città, ma del ducato. — Perchè, — aveva pensato, — il mio nome l’hanno su’ loro libracci, in qualunque maniera l’abbiano avuto; e col nome e cognome, mi vengono a prendere quando vogliono. — E in quanto a un asilo, non vi si sarebbe cacciato che quando avesse avuto i birri alle spalle. — Perchè, se posso essere uccel di bosco, — aveva anche pensato, — non voglio diventare uccel di gabbia. — Aveva dunque disegnato per suo rifugio quel paese nel territorio di Bergamo, dov’era accasato quel suo cugino Bortolo, se ve ne rammentate, che più volte l’aveva invitato a andar là. Ma trovar la strada, lì stava il male. Lasciato in una parte sconosciuta d’una città si può dire sconosciuta, Renzo non sapeva neppure da che porta s’uscisse per andare a Bergamo; e quando l’avesse saputo, non sapeva poi andare alla porta. (XVI, 1-3)
E’ l’inizio della fuga di Renzo da Milano, dopo che si è trovato implicato nei tumulti di S. Martino scoppiati tra l’11 e il 12 novembre del 1628, cominciati con l’assalto ai forni e culminati con l’assedio della casa del vicario di provvisione, alla fine messo in salvo dal cancelliere Antonio Ferrer; il popolo attribuiva erroneamente la penuria di grano e il conseguente rialzo dei prezzi agli incettatori di grano e ai fornai, mentre le cause stavano piuttosto nella scarsità del raccolto e nella guerra di successione per i ducati di Mantova e del Monferrato. Dopo la “notte degli imbrogli” Renzo era giunto a Milano con una lettera del padre Cristoforo indirizzata al padre Bonaventura del convento dei Cappuccini, pregato di ospitare il giovane e di trovargli un lavoro finché non avesse potuto tornare al paesello. Ma non trovando il padre,  incuriosito dal clima di confusione e di rivolta, non segue il consiglio del padre guardiano -aspettare in chiesa il ritorno del padre Bonaventura- e assiste, prima come spettatore e poi come attore, all’assalto del forno delle grucce e alla casa del vicario al Cordusio. Renzo, pur condividendo l’opinione comune che la causa della carestia fosse dovuta all’avidità dei fornai e alla politica del vicario, condanna lo scempio dei forni, si indigna quando i più violenti minacciano di uccidere il vicario e aiuta generosamente Ferrer quando interviene per sedare gli animi e mettere in salvo il vicario. Tuttavia la sua azione è doppiamente fraintesa: quando si oppone alla violenza della folla inferocita è preso per una spia, tanto che riesce a malapena a salvarsi da un tentativo di linciaggio, ma poi i suoi discorsi confusi sulla giustizia e sui soprusi dei potenti attirano l’attenzione delle autorità: uno sbirro in incognito, il sedicente Ambrogio Fusella, lo crede un sobillatore e uno dei leader della rivolta e lo segue all’osteria della Luna Piena dove Renzo trova ricovero per la notte. Qui si ubriaca e rivela il suo nome allo sbirro che glielo estorce con l’astuzia. L’oste lo denuncia alle autorità giudiziarie che la mattina seguente lo fanno arrestare e cercano di portarlo in carcere, ma per la strada è salvato dalla folla stessa che lo crede stavolta un rivoltoso ingiustamente perseguitato. A questo punto Renzo decide di fuggire dalla città  e di rifugiarsi nella bergamasca dal cugino Bortolo, poiché nel territorio di Milano pende su di lui un mandato di cattura. Ma si è perso e non trova la strada per la porta Orientale da cui era entrato; decide di scappare comunque e di chiedere indicazioni in seguito:
E risolvette subito d’allontanarsi in fretta di lì: che la strada se la farebbe poi insegnare, in luogo dove nessuno sapesse chi era, nè il perchè la domandasse. Disse a’ suoi liberatori: “ grazie tante, figliuoli: siate benedetti, ” e, uscendo per il largo che gli fu fatto immediatamente, prese la rincorsa, e via; dentro per un vicolo, giù per una stradetta, galoppò un pezzo, senza saper dove. Quando gli parve d’essersi allontanato abbastanza, rallentò il passo, per non dar sospetto; e cominciò a guardare in qua e in là, per isceglier la persona a cui far la sua domanda, una faccia che ispirasse confidenza. Ma anche qui c’era dell’imbroglio. La domanda per sè era sospetta; il tempo stringeva; i birri, appena liberati da quel piccolo intoppo, dovevan senza dubbio essersi rimessi in traccia del loro fuggitivo; la voce di quella fuga poteva essere arrivata fin là; e in tali strette, Renzo dovette fare forse dieci giudizi fisionomici, prima di trovar la figura che gli paresse a proposito. (XVI, 4-7)
.....camminava Renzo da Monza verso Milano,... Nella seconda sequenza del romanzo (capp. IX-XXVII) al villaggio si contrappone il mondo cittadino di Monza -dove trova rifugio Lucia- e soprattutto di Milano. Milano è il luogo in cui il romanzo si incrocia con la storia; qui Renzo scopre le dimensioni storiche dell’ingiustizia patita, ma fa anche esperienza della violenza, delle insidie, degli inganni, dei fraintendimenti. Tappa dolorosa ma necessaria dell’homo viator, il polo della “città” è contrapposto a quello della “campagna”, il paesello d’origine dei due promessi, abbandonato con struggente malinconia:
Dopo la separazione dolorosa che abbiam raccontata, camminava Renzo da Monza verso Milano, in quello stato d’animo che ognuno può immaginarsi facilmente. Abbandonar la casa, tralasciare il mestiere, e quel ch’era più di tutto, allontanarsi da Lucia, trovarsi sur una strada, senza saper dove anderebbe a posarsi; e tutto per causa di quel birbone! …
Renzo, salito per un di que’ valichi sul terreno più elevato, vide quella gran macchina del duomo sola sul piano, come se, non di mezzo a una città, ma sorgesse in un deserto; e si fermò su due piedi, dimenticando tutti i suoi guai, a contemplare anche da lontano quell’ottava maraviglia, di cui aveva tanto sentito parlare fin da bambino. Ma dopo qualche momento, voltandosi indietro, vide all’orizzonte quella cresta frastagliata di montagne, vide distinto e alto tra quelle il suo Resegone, si sentì tutto rimescolare il sangue, stette lì alquanto a guardar tristamente da quella parte, poi tristamente si voltò, e seguitò la sua strada. A poco a poco cominciò poi a scoprir campanili e torri e cupole e tetti.(XI, 50-54)

Renzo entra in Milano per la porta Orientale e procede fino al centro della città, seguendo un percorso segnalato con  precisione topografica (il convento dei Cappuccini, il duomo, la Corsia dei Servi, piazza Cordusio, via dei Mercanti), e poi segue nella sua fuga precipitosa un percorso a ritroso, dall’interno all’esterno, finché esce dalla città ancora attraverso la porta Orientale.L’attenzione alla porta, descritta sia nel momento dell’ingresso che in quello dell’uscita (XI, 58; XVI, 13), è spia dell’importanza del confine tra due mondi: la città è il “mondo altro”, il luogo dove scoppiano le contraddizioni, dominato dal personaggio collettivo di una folla che ha perduto la misura umana, il luogo dell’imbroglio e dell’inganno, della prova e della caduta di Renzo che, risucchiato come in un vortice, deve “divenir del mondo esperto”. La porta lo conduce in un “labirinto” reale e simbolico insieme, al centro del quale si colloca la prova da affrontare e dal quale non si può uscire senza l’aiuto del “filo di Arianna”. In letteratura spesso il labirinto è associato alla iniziazione dell’eroe protagonista: nel VI libro dell’Eneide la discesa di Enea agli inferi, tappa fondamentale del suo viaggio fatale, prende l’avvio dall’antro della Sibilla cumana, sovrastato dal tempio di Apollo fondato da Dedalo, che ne aveva istoriato le porte con la rappresentazione del labirinto cretese e delle vicende mitiche di Teseo e Arianna; anche Dante, perso nella “selva oscura”, smarrita la “diritta via”, dovrà “tenere altro viaggio” sotto la guida di Virgilio, attraversando la porta che rimarca con la celebre iscrizione la drammaticità del passaggio al mondo degli inferi (per me si va ne la città dolente, / per me si va ne l’etterno dolore, / per me si va tra la perduta gente).

...Cammina, cammina; trova cascine, trova villaggi,... Uscito finalmente da Milano, Renzo deve raccogliere informazioni senza dare nell’occhio perché è ricercato dalle autorità. Per questo non segue la strada maestra ma stradine secondarie che gli fanno perdere l’orientamento. Il tema della strada domina tutto il capitolo XVI, dalla ricerca iniziale della via fino al sentiero a zig zag che procede in margine alla strada maestra, metafora del destino tortuoso di Renzo a guida della Provvidenza. La preoccupazione per il viaggio si accompagna a uno stato d’animo turbato e confuso per tutto ciò che ha vissuto a Milano. E’ sottolineata la corrispondenza tra l’intrigo delle strade, l’affanno della fuga e il turbamento interiore, accentuato in seguito dall’ora serale e poi notturna. L’aspetto avventuroso della fuga è parallelo tuttavia a un  percorso più significativo: il cammino dell’intelligenza di R., la sua maturazione attraverso l'esperienza che gli ha insegnato a destreggiarsi tra le insidie, a osservare e tacere.
Cammina, cammina; trova cascine, trova villaggi, tira innanzi senza domandarne il nome; è certo d’allontanarsi da Milano, spera d’andar verso Bergamo; questo gli basta per ora. …I suoi pensieri erano, come ognuno può immaginarsi, un guazzabuglio di pentimenti, d’inquietudini, di rabbie, di tenerezze; era uno studio faticoso di raccapezzare le cose dette e fatte la sera avanti, di scoprir la parte segreta della sua dolorosa storia, e sopra tutto come avean potuto risapere il suo nome. ...
Ma ben presto, lo studio più penoso fu quello di trovar la strada. Dopo aver camminato un pezzo, si può dire, alla ventura, vide che da sè non ne poteva uscire. Provava bensì una certa ripugnanza a metter fuori quella parola Bergamo, come se avesse un non so che di sospetto, di sfacciato; ma non si poteva far di meno. Risolvette dunque di rivolgersi, come aveva fatto in Milano, al primo viandante la cui fisonomia gli andasse a genio; e così fece.
Siete fuor di strada, ” gli rispose questo; e, pensatoci un poco, parte con parole, parte co’ cenni, gl’indicò il giro che doveva fare, per rimettersi sulla strada maestra. Renzo lo ringraziò, fece le viste di far come gli era stato detto, prese in fatti da quella parte, con intenzione però d’avvicinarsi bensì a quella benedetta strada maestra, di non perderla di vista, di costeggiarla più che fosse possibile; ma senza mettervi piede. Il disegno era più facile da concepirsi che da eseguirsi.
La conclusione fu che, andando così da destra a sinistra, e, come si dice, a zig zag, parte seguendo l’altre indicazioni che si faceva coraggio a pescar qua e là, parte correggendole secondo i suoi lumi, e adattandole al suo intento, parte lasciandosi guidar dalle strade in cui si trovava incamminato, il nostro fuggitivo aveva fatte forse dodici miglia, che non era distante da Milano più di sei; e in quanto a Bergamo, era molto se non se n’era allontanato. Cominciò a persuadersi che, anche in quella maniera, non se n’usciva a bene; e pensò a trovar qualche altro ripiego. Quello che gli venne in mente, fu di scovar, con qualche astuzia, il nome di qualche paese vicino al confine, e al quale si potesse andare per istrade comunali: e domandando di quello, si farebbe insegnar la strada, senza seminar qua e là quella domanda di Bergamo, che gli pareva puzzar tanto di fuga, di sfratto, di criminale. (XVI, 14-20)

La fuga di Renzo passa attraverso il territorio della Martesana ricco di cultura e tradizioni conservate negli anni: come la storia del formaggio stracchino...


Il viaggio di Renzo è costellato dalle soste nelle osterie, che si rivelano anch’esse, come la città, luoghi poco raccomandabili, disseminati di trappole, dominati dal vociare scomposto degli avventori.La prima osteria dove trascorre la notte è ancora all’interno di Milano ed è quella della Luna Piena, dove il simbolo luminoso dell’insegna è contraddetto dalla luce ambigua e spettrale dell’interno, preludio a una nuova notte di inganni.

Ed entrò in un usciaccio, sopra il quale pendeva l’insegna della luna piena. … Due lumi a mano, pendenti da due pertiche attaccate alla trave del palco, vi spandevano una mezza luce. Molta gente era seduta, non però in ozio, su due panche, di qua e di là d’una tavola stretta e lunga, che teneva quasi tutta una parte della stanza: a intervalli, tovaglie e piatti; a intervalli, carte voltate e rivoltate, dadi buttati e raccolti; fiaschi e bicchieri per tutto.(XIV, 19-21)
Qui Renzo si ubriaca e si mette a parlare a vanvera delle ingiustizie subite, pur senza fare i nomi delle persone coinvolte; svela la sua passione per la giustizia, ma la sua ragione è offuscata, tanto che non si accorge di chi gli sta accanto, fraternizza coi ladri, vede nell’oste il solo nemico e nella spia -lo sbirro in incognito- un amico, tanto che gli rivela il suo nome. E’ sopraffatto dal gioco delle apparenze: lui che ha difeso il vicario e Ferrer, è considerato un sovversivo sia dai violenti che siedono ai tavoli che da coloro che difendono l’ordine costituito (l’oste e lo sbirro). Così, mentre cade nella trappola della spia, è vittima di una rete di equivoci in cui si smarrisce il suo slancio e il suo anelito alla giustizia.
In una località indefinita, dopo essere uscito da Milano, Renzo si ferma poi in una osteria di campagna dove intende rifocillarsi e chiedere indicazioni per dirigersi verso l’Adda, ma senza far trapelare che lo scopo è attraversare il confine. Ha ormai imparato la lezione: accetta il cibo dell’ostessa (lo stracchino) ma rifiuta il vino, risponde in modo evasivo alle domande della vecchia sui fatti di Milano, infine chiede la strada per Gorgonzola evitando di seguire la strada maestra.
Chiese un boccone; gli fu offerto un po’ di stracchino...Mentre cerca la maniera di pescar tutte quelle notizie, senza dar sospetto, vede pendere una frasca da una casuccia solitaria, fuori d’un paesello. Da qualche tempo, sentiva anche crescere il bisogno di ristorar le sue forze; pensò che lì sarebbe il luogo di fare i due servizi in una volta; entrò. Non c’era che una vecchia, con la rocca al fianco, e col fuso in mano. Chiese un boccone; gli fu offerto un po’ di stracchino e del vin buono: accettò lo stracchino, del vino la ringraziò (gli era venuto in odio, per quello scherzo che gli aveva fatto la sera avanti); e si mise a sedere, pregando la donna che facesse presto. ...
Devo andare in molti luoghi, ” rispose: “ e, se trovo un ritaglio di tempo, vorrei anche passare un momento da quel paese, piuttosto grosso, sulla strada di Bergamo, vicino al confine, però nello stato di Milano... Come si chiama? ” — Qualcheduno ce ne sarà, — pensava intanto tra sè.
- Gorgonzola, volete dire, - rispose la vecchia.
Gorgonzola! ” ripetè Renzo, quasi per mettersi meglio in mente la parola. “ È molto lontano di qui? ” riprese poi.
Non lo so precisamente: saranno dieci, saranno dodici miglia. Se ci fosse qualcheduno de’ miei figliuoli, ve lo saprebbe dire.
E credete che ci si possa andare per queste belle viottole, senza prender la strada maestra? dove c’è una polvere, una polvere! Tanto tempo che non piove! ”
“ A me mi par di sì: potete domandare nel primo paese che troverete andando a diritta. ” E glielo nominò.
Va bene; ” disse Renzo; s’alzò, prese un pezzo di pane che gli era avanzato della magra colazione, un pane ben diverso da quello che aveva trovato, il giorno avanti, appiè della croce di san Dionigi; pagò il conto, uscì, e prese a diritta. E, per non ve l’allungar più del bisogno, col nome di Gorgonzola in bocca, di paese in paese, ci arrivò, un’ora circa prima di sera.(XVI, 21-24)
Con l’accenno al vino, che Renzo prudentemente rifiuta, e al pane ben diverso da quello che aveva trovato, il giorno avanti, appiè della croce di san Dionigi,sembra che l’autore, quasi en passant e in sordina, suggerisca una simbologia per così dire “rovesciata” del pane e del vino, visti nei loro effetti perversi e non salvifici: nell’esperienza milanese il vino è la causa dell’ubriachezza di Renzo che provocherà il suo arresto, mentre i tre pani che il giovane raccoglie da terra quando entra in Milano saranno la causa dell’equivoco per cui sia l’oste che le autorità si convincono che abbia avuto un ruolo da leader nei tumulti e nell’assalto al forno delle grucce. Questo pane di Renzo non può non richiamare per contrasto il “pane del perdono” di fra Cristoforo, che il cappuccino aveva chiesto come viatico per il viaggio dopo aver ottenuto il perdono dal fratello del signore da lui ucciso (cap. IV).
La terza osteria, a cui è dedicata un’ampia sezione, è quella di Gorgonzola. Qui Renzo intende informarsi della distanza dall’Adda, poiché aveva sentito dire che per un certo tratto il fiume faceva da confine tra lo stato milanese e il Veneto. Accetta dall’oste un boccone e una mezzetta di vino, ha imparato la moderazione e si è riconciliato col vino. Alle domande dell’oste risponde con grande accortezza: omette  di nominare Milano e dichiara di venire da Liscate (in effetti ci era passato); gli chiede quanto dista Gorgonzola dall’Adda, ma non riesce a raccogliere informazioni su passaggi alternativi a quelli usuali -Canonica, il ponte di Cassano- perché l’oste si insospettisce.
L’affar più urgente era di passarlo (l’Adda) ovunque si fosse. Se non gli riusciva in quel giorno, era risoluto di camminare fin che l’ora e la lena glielo permettessero: e d’aspettar poi l’alba, in un campo, in un deserto; dove piacesse a Dio; pur che non fosse un’osteria.
Fatti alcuni passi in Gorgonzola, vide un’insegna, entrò; e all’oste, che gli venne incontro, chiese un boccone, e una mezzetta di vino: le miglia di più, e il tempo gli avevan fatto passare quell’odio così estremo e fanatico. “ Vi prego di far presto, ” soggiunse: “ perchè ho bisogno di rimettermi subito in istrada. ” E questo lo disse, non solo perchè era vero, ma anche per paura che l’oste, immaginandosi che volesse dormir lì, non gli uscisse fuori a domandar del nome e del cognome, e donde veniva, e per che negozio... Alla larga! L’oste rispose a Renzo, che sarebbe servito; e questo si mise a sedere in fondo della tavola, vicino all’uscio: il posto de’ vergognosi.
Ma voi, non venite da Milano? ”
Vengo da Liscate, ” rispose lesto il giovine, che intanto aveva pensata la sua risposta. Ne veniva in fatti, a rigor di termini, perchè c’era passato; e il nome l’aveva saputo, a un certo punto della strada, da un viandante che gli aveva indicato quel paese come il primo che doveva attraversare, per arrivare a Gorgonzola.
Quanto c’è di qui all’Adda? ” gli disse Renzo, mezzo tra’ denti, con un fare da addormentato, che gli abbiam visto qualche altra volta.
All’Adda, per passare? ” disse l’oste.
Cioè... sì... all’Adda. ”
Volete passare dal ponte di Cassano, o sulla chiatta di Canonica? ”
Dove si sia... Domando così per curiosità. ”
Eh, volevo dire, perchè quelli sono i luoghi dove passano i galantuomini, la gente che può dar conto di sè. ”
Va bene: e quanto c’è? ”
Fate conto che, tanto a un luogo, come all’altro, poco più, poco meno, ci sarà sei miglia.”
Sei miglia! non credevo tanto, ” disse Renzo. “ E già, ” riprese poi, con un'aria d'indifferenza, portata fino all'affettazione: “già, chi avesse bisogno di prendere una scorciatoia, ci saranno altri luoghi da poter passare? ”
Ce n’è sicuro, ” rispose l’oste, ficcandogli in viso due occhi pieni d’una curiosità maliziosa. Bastò questo per far morir tra’ denti al giovine l’altre domande che aveva preparate. Si tirò davanti il piatto; e guardando la mezzetta che l’oste aveva posata, insieme con quello, sulla tavola, disse: “ il vino è sincero?”. (XVI, 26-33)
Renzo riesce a eludere le domande incalzanti degli avventori, curiosi dei fatti di Milano. L’arrivo di un mercante milanese diretto a Bergamo, che era solito fermarsi in quell’osteria e ne conosceva gli avventori, da una parte ha la funzione di informare sugli ultimi avvenimenti, dall’altra porta al grottesco l’equivoco sul protagonista. Il mercante infatti legge gli eventi dal suo punto di vista, quello del potere costituito che protegge i suoi interessi, ed è fuorviato da dicerie e false notizie spacciate come vere: i tumulti sarebbero l’esito di un complotto ordito da forestieri, in ultimo dai francesi e dal cardinale Richelieu, contro gli spagnoli. Quella mattina c’era stato un altro tentativo di dare l’assalto alla casa del vicario, ma la strada era sbarrata dalle barricate e difesa dai soldati. La folla allora si era riversata al forno del Cordusio, dove si distribuiva il grano a prezzo calmierato, col proposito di darlo alle fiamme, ma la folla ne era stata distolta da un croce che un uomo aveva appeso alle finestre, mentre dal duomo uscivano tutti i monsignori in processione intenzionati a placare la furia del popolo. Tra la sera precedente e la mattina parecchi facinorosi erano stati catturati, i capi sarebbero stati impiccati. Avevano acchiappato anche un forestiero con delle carte sospette, che, liberato dai suoi compari, era fuggito non si sa dove. Le lettere, su cui era descritta tutta la cabala, erano rimaste nelle mani della giustizia. Ovviamente il forestiero sarebbe Renzo e le carte sospette la lettera di padre Cristoforo, che gli era stata requisita al momento dell’arresto ma che poi il giovane era riuscito a recuperare; spaventato da queste fake news, Renzo viene preso dalla frenesia di allontanarsi dall’osteria e dal paese, ma prevale la prudenza, sa che deve fingersi estraneo agli eventi e rimanere calmo per non destare sospetti.
A questo punto, l’oste, ch’era stato anche lui a sentire, andò verso l’altra cima della tavola, per veder cosa faceva quel forestiero. Renzo colse l’occasione, chiamò l’oste con un cenno, gli chiese il conto, lo saldò senza tirare, quantunque l’acque fossero molto basse; e, senza far altri discorsi, andò diritto all’uscio, passò la soglia, e, a guida della Provvidenza, s’incamminò dalla parte opposta a quella per cui era venuto.(XVI, 61)
C’è un’ultima osteria nella quale Renzo, quando ormai ha attraversato l’Adda ed è in salvo nel territorio di Bergamo, fa una sosta per rifocillarsi prima di arrivare nel paese di Bortolo. Questa volta non si fa cenno a ciò che accade all’interno dell’osteria, perché l’attenzione è focalizzata sulla soglia, sulla scena della famiglia indigente che chiede l’elemosina: il gesto di carità di Renzo, che uscendo si priva degli ultimi danari, conferma che il suo viaggio, come il percorso di ogni uomo, è a guida della provvidenza.
Entrò in un’osteria a ristorarsi lo stomaco; e in fatti, pagato che ebbe, gli rimase ancor qualche soldo.
Nell’uscire, vide, accanto alla porta, che quasi v’inciampava, sdraiate in terra, più che sedute, due donne, una attempata, un’altra più giovine, con un bambino, che, dopo aver succhiata invano l’una e l’altra mammella, piangeva, piangeva; tutti del color della morte: e ritto, vicino a loro, un uomo, nel viso del quale e nelle membra, si potevano ancora vedere i segni d’un’antica robustezza, domata e quasi spenta dal lungo disagio. Tutt’e tre stesero la mano verso colui che usciva con passo franco, e con l’aspetto rianimato: nessuno parlò; che poteva dir di più una preghiera?
La c’è la Provvidenza! ” disse Renzo; e, cacciata subito la mano in tasca, la votò di que’ pochi soldi; li mise nella mano che si trovò più vicina, e riprese la sua strada.
La refezione e l’opera buona (giacchè siam composti d’anima e di corpo) avevano riconfortati e rallegrati tutti i suoi pensieri. Certo, dall’essersi così spogliato degli ultimi danari, gli era venuto più di confidenza per l’avvenire, che non gliene avrebbe dato il trovarne dieci volte tanti. Perchè, se a sostenere in quel giorno que’ poverini che mancavano sulla strada, la Provvidenza aveva tenuti in serbo proprio gli ultimi quattrini d’un estraneo, fuggitivo, incerto anche lui del come vivrebbe; chi poteva credere che volesse poi lasciare in secco colui del quale s’era servita a ciò, e a cui aveva dato un sentimento così vivo di sè stessa, così efficace, così risoluto? (XVII, 41-43)

 L’arrivo all’Adda non è facile e diretto, ma è una strada “al buio”Ma riprendiamo il viaggio di Renzo dopo la sosta a Gorgonzola, perché il momento più drammatico deve ancora venire. L’arrivo all’Adda non è facile e diretto, ma è una strada “al buio” anche alla lettera: è notte e Renzo procede a tentoni, allontanandosi gradatamente dai centri abitati per inoltrarsi in zone disabitate e selvagge.
Quantunque, nel momento che usciva di Gorgonzola, scoccassero le ventiquattro, e le tenebre che venivano innanzi, diminuissero sempre più que’ pericoli, ciò non ostante prese contro voglia la strada maestra, e si propose d’entrar nella prima viottola che gli paresse condur dalla parte dove gli premeva di riuscire. Sul principio, incontrava qualche viandante; ma, pieno la fantasia di quelle brutte apprensioni, non ebbe cuore d’abbordarne nessuno, per informarsi della strada. — Ha detto sei miglia, colui, — pensava: — se andando fuor di strada, dovessero anche diventar otto o dieci, le gambe che hanno fatte l’altre, faranno anche queste. Verso Milano non vo di certo; dunque vo verso l’Adda. Cammina, cammina, o presto o tardi ci arriverò. L’Adda ha buona voce; e, quando le sarò vicino, non ho più bisogno di chi me l’insegni. Se qualche barca c’è, da poter passare, passo subito, altrimenti mi fermerò fino alla mattina, in un campo, sur una pianta, come le passere: meglio sur una pianta, che in prigione. —
Ben presto vide aprirsi una straducola a mancina; e v’entrò. A quell’ora, se si fosse abbattuto in qualcheduno, non avrebbe più fatte tante cerimonie per farsi insegnar la strada; ma non sentiva anima vivente. Andava dunque dove la strada lo conduceva; e pensava. (XVII, 3-5)
I passi del suo cammino sono accompagnati da monologhi interiori, ma ben presto smette di rimuginare sulle false notizie propalate dal mercante nell’osteria perché subentra uno stato d’animo pieno di apprensione per quel suo muoversi alla cieca, in solitudine, al freddo, senza poter più contare sulle tracce della presenza umana. Nel lento avvicinamento all’Adda, la natura diventa sempre più ostile e selvatica  finché, in un crescendo di orrore, Renzo si addentra in un bosco dove le tenebre, l’incerta luce della luna e la brezza gelida deformano le figure degli alberi; ma quando è ormai sul punto di cedere e si sta risolvendo a tornare indietro, nel silenzio che lo avvolge sente la voce dell’Adda: è questo il “filo di Arianna” che gli permette di uscire da questo secondo “labirinto”, dall’esperienza traumatica della selva oscura. L’ amico rumore lo aiuta a vincere i suoi fantasmi interiori, la paura che minacciava di bloccarlo e di farlo tornare sui suoi passi.
Le tenebre, la solitudine, la stanchezza cresciuta, e ormai dolorosa; tirava una brezzolina sorda, uguale, sottile, che doveva far poco servizio a chi si trovava ancora indosso quegli stessi vestiti che s’era messi per andare a nozze in quattro salti, e tornare subito trionfante a casa sua; e, ciò che rendeva ogni cosa più grave, quell’andare alla ventura, e, per dir così, al tasto, cercando un luogo di riposo e di sicurezza.
Quando s’abbatteva a passare per qualche paese, andava adagio adagio, guardando però se ci fosse ancora qualche uscio aperto; ma non vide mai altro segno di gente desta, che qualche lumicino trasparente da qualche impannata. Nella strada fuor dell’abitato, si soffermava ogni tanto; stava in orecchi, per veder se sentiva quella benedetta voce dell’Adda; ma invano. Altre voci non sentiva, che un mugolìo di cani, che veniva da qualche cascina isolata, vagando per l’aria, lamentevole insieme e minaccioso. Al suo avvicinarsi a qualcheduna di quelle, il mugolìo si cambiava in un abbaiar frettoloso e rabbioso: nel passar davanti alla porta, sentiva, vedeva quasi, il bestione, col muso al fessolino della porta, raddoppiar gli urli: cosa che gli faceva andar via la tentazione di picchiare, e di chieder ricovero. ...
Cammina, cammina; arrivò dove la campagna coltivata moriva in una sodaglia sparsa di felci e di scope. Gli parve, se non indizio, almeno un certo qual argomento di fiume vicino, e s’inoltrò per quella, seguendo un sentiero che l’attraversava. Fatti pochi passi, si fermò ad ascoltare; ma ancora invano. La noia del viaggio veniva accresciuta dalla salvatichezza del luogo, da quel non veder più nè un gelso, nè una vite, nè altri segni di coltura umana, che prima pareva quasi che gli facessero una mezza compagnia. Ciò non ostante andò avanti; e siccome nella sua mente cominciavano a suscitarsi certe immagini, certe apparizioni, lasciatevi in serbo dalle novelle sentite raccontar da bambino, così, per discacciarle, o per acquietarle, recitava, camminando, dell’orazioni per i morti.
A poco a poco, si trovò tra macchie più alte, di pruni, di quercioli, di marruche. Seguitando a andare avanti, e allungando il passo, con più impazienza che voglia, cominciò a veder tra le macchie qualche albero sparso; e andando ancora, sempre per lo stesso sentiero, s’accorse d’entrare in un bosco. Provava un certo ribrezzo a inoltrarvisi; ma lo vinse, e contro voglia andò avanti; ma più che s’inoltrava, più il ribrezzo cresceva, più ogni cosa gli dava fastidio. Gli alberi che vedeva in lontananza, gli rappresentavan figure strane, deformi, mostruose; l’annoiava l’ombra delle cime leggermente agitate, che tremolava sul sentiero illuminato qua e là dalla luna; lo stesso scrosciar delle foglie secche che calpestava o moveva camminando, aveva per il suo orecchio un non so che d’odioso. Le gambe provavano come una smania, un impulso di corsa, e nello stesso tempo pareva che durassero fatica a regger la persona. Sentiva la brezza notturna batter più rigida e maligna sulla fronte e sulle gote; se la sentiva scorrer tra i panni e le carni, e raggrinzarle, e penetrar più acuta nelle ossa rotte dalla stanchezza, e spegnervi quell’ultimo rimasuglio di vigore. A un certo punto, quell’uggia, quell’orrore indefinito con cui l’animo combatteva da qualche tempo, parve che a un tratto lo soverchiasse. Era per perdersi affatto; ma atterrito, più che d’ogni altra cosa, del suo terrore, richiamò al cuore gli antichi spiriti, e gli comandò che reggesse. Così rinfrancato un momento, si fermò su due piedi a deliberare; e risolveva d’uscir subito di lì per la strada già fatta, d’andar diritto all’ultimo paese per cui era passato, di tornar tra gli uomini, e di cercare un ricovero, anche all’osteria. E stando così fermo, sospeso il fruscìo de’ piedi nel fogliame, tutto tacendo d’intorno a lui, cominciò a sentire un rumore, un mormorìo, un mormorìo d’acqua corrente. Sta in orecchi; n’è certo; esclama: “ è l’Adda! ” Fu il ritrovamento d’un amico, d’un fratello, d’un salvatore. La stanchezza quasi scomparve, gli tornò il polso, sentì il sangue scorrer libero e tepido per tutte le vene, sentì crescer la fiducia de’ pensieri, e svanire in gran parte quell’incertezza e gravità delle cose; e non esitò a internarsi sempre più nel bosco, dietro all’amico rumore.
Arrivò in pochi momenti all’estremità del piano, sull’orlo d’una riva profonda; e guardando in giù tra le macchie che tutta la rivestivano, vide l’acqua luccicare e correre. Alzando poi lo sguardo, vide il vasto piano dell’altra riva, sparso di paesi, e al di là i colli, e sur uno di quelli una gran macchia biancastra,che gli parve dover essere una città, Bergamo sicuramente.(XVII, 9-18)
Che notte, povero Renzo! 
A questo punto il lettore tira un sospiro di sollievo e si aspetta una rapida e felice conclusione dell’episodio: il nostro eroe ce l’ha fatta, finalmente è fuori dal pericolo, si può voltar pagina. E invece no, il passaggio è ritardato e Renzo deve tornare sui suoi passi per cercare un ricovero per ciò che resta della notte, notte reale e metaforica che non è ancora finita. Quello di Renzo è un viaggio non lineare ma lento e tortuoso, alla ricerca come a tentoni di una strada che impone molti giri e che talvolta procede avanti ma poi torna indietro prima di riprendere la direzione voluta. È il viaggio della vita che ogni uomo percorre a guida della Provvidenza, dove tuttavia la Povvidenza non elimina l’angoscia e la lotta, non è una bacchetta magica che risolve repentinamente i problemi, ma si manifesta non senza difficoltà attraverso  circostanze mutevoli e spesso oscure.
Scese un po’ sul pendìo, e, separando e diramando, con le mani e con le braccia, il prunaio, guardò giù, se qualche barchetta si movesse nel fiume, ascoltò se sentisse batter de’ remi; ma non vide né sentì nulla. Se fosse stato qualcosa di meno dell’Adda, Renzo scendeva subito, per tentarne il guado; ma sapeva bene che l’Adda non era fiume da trattarsi così in confidenza. …
Gli venne in mente d’aver veduto, in uno de’ campi più vicini alla sodaglia, una di quelle capanne coperte di paglia, costrutte di tronchi e di rami, intonacati poi con la mota, dove i contadini del milanese usan, l’estate, depositar la raccolta, e ripararsi la notte a guardarla: nell’altre stagioni, rimangono abbandonate. La disegnò subito per suo albergo; si rimise sul sentiero, ripassò il bosco, le macchie, la sodaglia; e andò verso la capanna. Un usciaccio intarlato e sconnesso, era rabbattuto, senza chiave nè catenaccio; Renzo l’aprì, entrò; vide sospeso per aria, e sostenuto da ritorte di rami, un graticcio, a foggia d’hamac; ma non si curò di salirvi. Vide in terra un po’ di paglia; e pensò che, anche lì, una dormitina sarebbe ben saporita.(XVII, 18-20)
Prima di sdraiarsi Renzo si inginocchia e ringrazia la Provvidenza di quel rifugio, poi dice le preghiere della sera. Ma un turbinio di pensieri sugli eventi degli ultimi due giorni e la vergogna di aver tradito la fiducia di padre Cristoforo cacciandosi nei guai gli impedisce di dormire. Le uniche immagini che gli danno un po' di conforto in quel tormento sono una barba bianca e una treccia nera.
Che notte, povero Renzo! Quella che doveva esser la quinta delle sue nozze! Che stanza! Che letto matrimoniale! E dopo qual giornata! E per arrivare a qual domani, a qual serie di giorni! — Quel che Dio vuole, — rispondeva ai pensieri che gli davan più noia: — quel che Dio vuole. Lui sa quel che fa: c’è anche per noi. Vada tutto in isconto de’ miei peccati. Lucia è tanto buona! non vorrà poi farla patire un pezzo, un pezzo, un pezzo! —
Tra questi pensieri, e disperando ormai d’attaccar sonno, e facendosegli il freddo sentir sempre più, a segno ch’era costretto ogni tanto a tremare e a battere i denti, sospirava la venuta del giorno, e misurava con impazienza il lento scorrer dell’ore. Dico misurava, perchè, ogni mezz’ora, sentiva in quel vasto silenzio, rimbombare i tocchi d’un orologio: m’immagino che dovesse esser quello di Trezzo. E la prima volta che gli ferì gli orecchi quello scocco, così inaspettato, senza che potesse avere alcuna idea del luogo donde venisse, gli fece un senso misterioso e solenne, come d’un avvertimento che venisse da persona non vista, con una voce sconosciuta.(XVII, 26-27)
...Quel ciel di Lombardia, cos' bello quando è bello, così splendido, così in pace.
Finalmente, trascorsa la notte, alle prime luci dell’alba riprende il cammino; non è più un viaggio al buio, il sentiero è ben riconoscibile, le tenebre si sono diradate per far posto alle luci cangianti del cielo, quel cielo di Lombardia, così bello quand’è bello, così splendido, così in pace.
Quando finalmente quel martello ebbe battuto undici tocchi, ch’era l’ora disegnata da Renzo per levarsi, s’alzò mezzo intirizzito, si mise inginocchioni, disse, e con più fervore del solito, le divozioni della mattina, si rizzò, si stirò in lungo e in largo, scosse la vita e le spalle, come per mettere insieme tutte le membra, che ognuno pareva che facesse da sè, soffiò in una mano, poi nell’altra, se le stropicciò, aprì l’uscio della capanna; e, per la prima cosa, diede un’occhiata in qua e in là, per veder se c’era nessuno. E non vedendo nessuno, cercò con l’occhio il sentiero della sera avanti; lo riconobbe subito, e prese per quello.
Il cielo prometteva una bella giornata: la luna, in un canto, pallida e senza raggio, pure spiccava nel campo immenso d’un bigio ceruleo, che, giù giù verso l’oriente, s’andava sfumando leggermente in un giallo roseo. Più giù, all’orizzonte, si stendevano, a lunghe falde ineguali, poche nuvole, tra l’azzurro e il bruno, le più basse orlate al di sotto d’una striscia quasi di fuoco, che di mano in mano si faceva più viva e tagliente: da mezzogiorno, altre nuvole ravvolte insieme, leggieri e soffici, per dir così, s’andavan lumeggiando di mille colori senza nome: quel cielo di Lombardia, così bello quand’è bello, così splendido, così in pace. ...
Passa i campi, passa la sodaglia, passa le macchie, attraversa il bosco, guardando in qua e in là, e ridendo e vergognandosi nello stesso tempo, delribrezzo che vi aveva provato poche ore prima; è sul ciglio della riva, guarda giù; e, di tra i rami, vede una barchetta di pescatore, che veniva adagio, contr’acqua, radendo quella sponda.(XVII, 28-30)
Renzo chiede al pescatore di traghettarlo in cambio di denaro, salta nella barca e aiuta a remare con vigore. Ma ancora una volta il passaggio dell’Adda è stranamente rallentato e non viene  effettuato in linea retta ma in diagonale, perché la rapidità della corrente impedisce un percorso diretto.
Adagio, adagio, ” disse il padrone; ma nel veder poi con che garbo il giovine aveva preso lo strumento, e si disponeva a maneggiarlo, “ ah, ah, ” riprese: “ siete del mestiere.”
Un pochino, ” rispose Renzo, e ci si mise con un vigore e con una maestria, più che da dilettante. E senza mai rallentare, dava ogni tanto un’occhiata ombrosa alla riva da cui s’allontanavano, e poi una impaziente a quella dov’eran rivolti, e si coceva di non poterci andar per la più corta; chè la corrente era, in quel luogo, troppo rapida, per tagliarla direttamente; e la barca, parte rompendo, parte secondando il filo dell’acqua, doveva fare un tragitto diagonale. Come accade in tutti gli affari un po’ imbrogliati, che le difficoltà alla prima si presentino all’ingrosso, e nell’eseguire poi, vengan fuori per minuto, Renzo, ora che l’Adda era, si può dir, passata, gli dava fastidio il non saper di certo se lì essa fosse confine, o se, superato quell’ostacolo, gliene rimanesse un altro da superare. Onde, chiamato il pescatore, e accennando col capo quella macchia biancastra che aveva veduta la notte avanti, e che allora gli appariva ben più distinta, disse: “ è Bergamo, quel paese?”
La città di Bergamo, ” rispose il pescatore.
E quella riva lì, è bergamasca? ”
Terra di san Marco. ”
Viva san Marco! ” esclamò Renzo. Il pescatore non disse nulla.
Toccano finalmente quella riva; Renzo vi si slancia;ringrazia Dio tra sè, e poi con la bocca il barcaiolo; mette le mani in tasca, tira fuori una berlinga, che, attese le circostanze, non fu un piccolo sproprio, e la porge al galantuomo; il quale, data ancora una occhiata alla riva milanese, e al fiume di sopra e di sotto, stese la mano, prese la mancia, la ripose, poi strinse le labbra, e per di più ci mise il dito in croce, accompagnando quel gesto con un’occhiata espressiva; e disse poi: “ buon viaggio, ” e tornò indietro. ...
Renzo si fermò un momentino sulla riva a contemplar la riva opposta, quella terra che poco prima scottava tanto sotto i suoi piedi. — Ah! ne son proprio fuori! — fu il suo primo pensiero. — Sta’ lì, maledetto paese, — fu il secondo, l’addio alla patria. Ma il terzo corse a chi lasciava in quel paese. Allora incrociò le braccia sul petto, mise un sospiro, abbassò gli occhi sull’acqua che gli scorreva a’ piedi, e pensò — è passata sotto il ponte! — Così, all’uso del suo paese, chiamava, per antonomasia, quello di Lecco. — Ah mondo birbone! Basta; quel che Dio vuole. (XVII, 32-37)
L'ultima tappa
L’esultanza di aver raggiunto la meta è mitigata dalla nostalgia delle persone care che restano al di qua dell’Adda, per rivedere le quali Renzo dovrà affrontare ancora molte prove e un nuovo, ultimo viaggio a Milano: questo sarà la tappa più difficile e dolorosa del suo cammino, una vera discesa agli inferi nella città infestata dalla peste, fin nel cuore della morte, il lazzaretto, dove Renzo cerca Lucia disperando di trovarla viva. Ancora una volta i suoi gesti sono fraintesi: Renzo viene creduto prima un untore e poi un monatto. Nel lazzaretto si sciolgono gli ultimi nodi del romanzo: il padre Cristoforo, già molto ammalato, guida Renzo al capezzale di don Rodrigo morente e lo sollecita a perdonare il suo persecutore; infine Renzo nel quartiere delle donne trova Lucia, guarita dalla peste, che il padre Cristoforo scioglie dal voto di castità. Renzo risale alla vita: felice, come in sogno, esce da Milano per tornare a Pescarenico  sotto un violento temporale che spazza via la peste; cammina tutta la notte senza mai fermarsi e … sostare nelle osterie; torna la simbologia dell’acqua sotto la forma della pioggia che suggerisce il tema della purificazione.
E vissero felici e contenti?
Date le premesse, sarebbe banale aspettarsi dai Promessi Sposi una conclusione del tipo E vissero felici e contenti: pur essendoci un lieto fine, al termine della storia non viene ricostruito l’equilibrio originario da cui è ha preso le mosse la vicenda (quel ramo del lago di Como), gli sposi non si fermano nella casa dove la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo, ma conoscono ancora delusioni e amarezze nel paese di Bortolo, da dove si trasferiscono poi stabilmente nelle vicinanze di Bergamo. Così anche l’ultima sequenza del romanzo, come le prime due, si conclude con un moto di allontanamento dal paese d’origine, immagine della instabilità della vita umana in cui si è compagni di viaggio. E’ il “romanzo senza idillio”, secondo la celebre definizione di Ezio Raimondi. Anche l’interpretazione complessiva del percorso di Renzo, sempre in cammino, come il consueto “viaggio di formazione” dell’eroe protagonista, è corretta ma non esaustiva. Renzo stesso, ragionando con Lucia sul senso delle loro disavventure, riconosce alla fine che c’è qualcosa che sfugge alla rassicurante coscienza dell’ ho imparato, ed è il mistero insondabile del dolore innocente.
Il bello era a sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che ci aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire. “Ho imparato,” diceva, “a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a non alzar troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c’è lì d’intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d’aver pensato quel che possa nascere.” E cent’altre cose.
Lucia però, non che trovasse la dottrina falsa in sè, ma non n’era soddisfatta; le pareva, così in confuso, che ci mancasse qualcosa. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarci sopra ogni volta, “e io,” disse un giorno al suo moralista, “cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me. Quando non voleste dire,” aggiunse, soavemente sorridendo, “che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi.”
Renzo, alla prima, rimase impicciato. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perchè ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benchè trovata da povera gente, c’è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia. (XXXVIII, 66-69)