aprile 2020
VIA CRUCIS BIANCA di Lucio Fontana
Sintesi visita virtuale per il CC
NEWMAN
A cura del Servizio didattico ufficiale
per il Museo Diocesano di Milano
Maria Elisa Le Donne per Ambarabart
Rientrato a Milano nell’Italia pre-bellica Fontana si era fatto notare come grande artista, ceramista, mosaicista, scultore, ma si era anche avvicinato a mezzi inconsueti come il neon, la radio, la televisione.
Il secondo ritorno in Argentina coincide con la II Guerra Mondiale; qui nel 1946 con i suoi studenti lancia il Manifesto Blanco.
Era da poco arrivata la prima fotografia della Terra dallo spazio… per Fontana è l’inizio di qualcosa di nuovo: nulla sarà più come prima “La materia, quella classica, doveva essere abbandonata completamente, era tutto un altro problema, il problema di una dimensione nuova […] Non ci interessa che un gesto, compiuto, viva un attimo o un millennio, perché siamo veramente convinti che, compiutolo, esso è eterno”.
Nel 1947 Fontana è di nuovo a Milano dove nasce il Manifesto dello Spazialismo. Fino a quel momento ammirato e stimato come ceramista e scultore, nel 1949 presenta il suo primo Ambiente Spaziale iniziando così a circondarsi di una pessima reputazione. Già nel 1947 con i primi “buchi ” intitolati Concetti spaziali, proprio a Milano, erano iniziate le prime ironie.
Fontana rompe le barriere bidimensionali del quadro, liberando una dimensione altra, oltre i confini materiali dell’opera: nelle sue opere entra la luce.
Quasi dieci anni dopo, nel 1955 Marco Zanuso progetta la
cappella per la Casa Materna Asili Nido Ada
Bolchini Dell’Acqua, un istituto di beneficenza milanese; egli chiama con
sé Lucio Fontana (con cui aveva già collaborato).
Fontana realizza quattordici formelle ottagonali in ceramica
bianca smaltata, brevemente incisa. Non poteva che nascere a Milano questa via Crucis, dove Ponti stava
pensando di ricostruire la città su moduli diamantini, perfetta e trasparente
come un cristallo, come una seconda possibilità.Ma il bianco di Fontana non è il bianco di Piero Manzoni, suo vicino di studio: il bianco di Piero è opaco, il bianco di Fontana qui è lucido. Sceglie uno sfondo bianco per entrare in sintonia più facilmente con la cappella e sceglie un fondo bianco che “ha lo stesso valore dell’antico fondo oro: accoglie e riflette la luce, rinvia a messaggi trascendentali, a quell’atto dello spirito svincolato dalla materia’ […] che sottintende una concezione profondamente religiosa”. Manca solo il caldo dell’oro, c’è uno spazio comune ma è uno spazio più meditativo che sacramentale.
È in questa via Crucis del 1955 che appaiono i primi graffi, così profondi da parer tagli. È tutto dolorosissimo, un graffio profondo accompagna e sottolinea come un’ombra la figura di Gesù.
Iniziò a tagliare le tele nel 1958, i primi tagli erano fenditure brevi e lasciavano sfilacciato l’ordito violato, nascevano dai graffi.
Ancora nella sua ultima intervista prima di morire nel 1968 diceva: “allora faccio un atto di fede, io buco e passa l’infinito da lì… chi vuole capire, capisce, se no continua a dire che son <bus>e ciao”. Da vero creatore Fontana aveva un unico cruccio: la fine dello spazio; sacrificò a questa ricerca di un oltre le sue mani, pur bravissime.
È possibile vedere i silenziosi primi tagli della Via Crucis
Bianca di Fontana al Museo Diocesano di Milano che gli dedica una ricca sala,
dove sono custoditi, insieme alla Via Crucis, alcuni preziosi bozzetti per il
Duomo di Milano.
CAMMINA,
CAMMINA...trova cascine, trova villaggi... Letture
da " I Promessi Sposi "a cura della Prof.ssa Lucia Prestipino
Il viaggio di Renzo per raggiungere l'Adda, attraverso le campagne della Martesana.
Scappa, scappa, galantuomo: lì c’è un convento,
ecco là una chiesa; “di qui, di là,”si grida a Renzo da ogni parte. In quanto
allo scappare, pensate se aveva bisogno di consigli. Fin dal primo momento che
gli era balenato in mente una speranza d’uscir da quell’unghie, aveva
cominciato a fare i suoi conti, e stabilito, se questo gli riusciva, d’andare
senza fermarsi, fin che non fosse fuori, non solo della città, ma del ducato. —
Perchè, — aveva pensato, — il mio nome l’hanno su’ loro libracci, in qualunque maniera
l’abbiano avuto; e col nome e cognome, mi vengono a prendere quando vogliono. —
E in quanto a un asilo, non vi si sarebbe cacciato che quando avesse avuto i
birri alle spalle. — Perchè, se posso essere uccel di bosco, — aveva anche
pensato, — non voglio diventare uccel di gabbia. — Aveva dunque disegnato per
suo rifugio quel paese nel territorio di Bergamo, dov’era accasato quel suo
cugino Bortolo, se ve ne rammentate, che più volte l’aveva invitato a andar là.
Ma trovar la strada, lì stava il male. Lasciato in una parte sconosciuta d’una
città si può dire sconosciuta, Renzo non sapeva neppure da che porta s’uscisse
per andare a Bergamo; e quando l’avesse saputo, non sapeva poi andare alla
porta. (XVI, 1-3)
E’
l’inizio della fuga di Renzo da Milano, dopo che si è trovato implicato nei
tumulti di S. Martino scoppiati tra l’11 e il 12 novembre del 1628, cominciati
con l’assalto ai forni e culminati con l’assedio della casa del vicario di
provvisione, alla fine messo in salvo dal cancelliere Antonio Ferrer; il popolo
attribuiva erroneamente la penuria di grano e il conseguente rialzo dei prezzi
agli incettatori di grano e ai fornai, mentre le cause stavano piuttosto nella
scarsità del raccolto e nella guerra di successione per i ducati di Mantova e
del Monferrato. Dopo la “notte degli imbrogli” Renzo era giunto a Milano con
una lettera del padre Cristoforo indirizzata al padre Bonaventura del convento
dei Cappuccini, pregato di ospitare il giovane e di trovargli un lavoro finché
non avesse potuto tornare al paesello. Ma non trovando il padre, incuriosito dal clima di confusione e di
rivolta, non segue il consiglio del padre guardiano -aspettare in chiesa il
ritorno del padre Bonaventura- e assiste, prima come spettatore e poi come
attore, all’assalto del forno delle grucce e alla casa del vicario al Cordusio.
Renzo, pur condividendo l’opinione comune che la causa della carestia fosse
dovuta all’avidità dei fornai e alla politica del vicario, condanna lo scempio
dei forni, si indigna quando i più violenti minacciano di uccidere il vicario e
aiuta generosamente Ferrer quando interviene per sedare gli animi e mettere in
salvo il vicario. Tuttavia la sua azione è doppiamente fraintesa: quando si
oppone alla violenza della folla inferocita è preso per una spia, tanto che
riesce a malapena a salvarsi da un tentativo di linciaggio, ma poi i suoi
discorsi confusi sulla giustizia e sui soprusi dei potenti attirano
l’attenzione delle autorità: uno sbirro in incognito, il sedicente Ambrogio
Fusella, lo crede un sobillatore e uno dei leader della rivolta e lo segue
all’osteria della Luna Piena dove Renzo trova ricovero per la notte. Qui si
ubriaca e rivela il suo nome allo sbirro che glielo estorce con l’astuzia.
L’oste lo denuncia alle autorità giudiziarie che la mattina seguente lo fanno
arrestare e cercano di portarlo in carcere, ma per la strada è salvato dalla
folla stessa che lo crede stavolta un rivoltoso ingiustamente perseguitato. A
questo punto Renzo decide di fuggire dalla città e di rifugiarsi nella bergamasca dal cugino
Bortolo, poiché nel territorio di Milano pende su di lui un mandato di cattura.
Ma si è perso e non trova la strada per la porta Orientale da cui era entrato;
decide di scappare comunque e di chiedere indicazioni in seguito:
E
risolvette subito d’allontanarsi in fretta di lì: che la strada se la farebbe
poi insegnare, in luogo dove nessuno sapesse chi era, nè il perchè la
domandasse. Disse a’ suoi liberatori: “ grazie tante, figliuoli: siate
benedetti, ” e, uscendo per il largo che gli fu fatto immediatamente, prese la
rincorsa, e via; dentro per un vicolo, giù per una stradetta, galoppò un pezzo,
senza saper dove. Quando gli parve d’essersi allontanato abbastanza, rallentò
il passo, per non dar sospetto; e cominciò a guardare in qua e in là, per
isceglier la persona a cui far la sua domanda, una faccia che ispirasse
confidenza. Ma anche qui c’era dell’imbroglio. La domanda per sè era sospetta;
il tempo stringeva; i birri, appena liberati da quel piccolo intoppo, dovevan
senza dubbio essersi rimessi in traccia del loro fuggitivo; la voce di quella
fuga poteva essere arrivata fin là; e in tali strette, Renzo dovette fare forse
dieci giudizi fisionomici, prima di trovar la figura che gli paresse a
proposito. (XVI, 4-7)
.....camminava Renzo da Monza verso Milano,... Nella seconda sequenza del romanzo
(capp. IX-XXVII) al villaggio si contrappone il mondo cittadino di Monza -dove
trova rifugio Lucia- e soprattutto di Milano. Milano è il luogo in cui il
romanzo si incrocia con la storia; qui Renzo scopre le dimensioni storiche dell’ingiustizia
patita, ma fa anche esperienza della violenza, delle insidie, degli inganni,
dei fraintendimenti. Tappa dolorosa ma necessaria dell’homo viator, il
polo della “città” è contrapposto a quello della “campagna”, il paesello
d’origine dei due promessi, abbandonato con struggente malinconia:
Dopo la separazione
dolorosa che abbiam raccontata, camminava Renzo da Monza verso Milano, in
quello stato d’animo che ognuno può immaginarsi facilmente. Abbandonar la casa,
tralasciare il mestiere, e quel ch’era più di tutto, allontanarsi da Lucia,
trovarsi sur una strada, senza saper dove anderebbe a posarsi; e tutto per
causa di quel birbone! …
Renzo,
salito per un di que’ valichi sul terreno più elevato, vide quella gran
macchina del duomo sola sul piano, come se, non di mezzo a una città, ma
sorgesse in un deserto; e si fermò su due piedi, dimenticando tutti i suoi
guai, a contemplare anche da lontano quell’ottava maraviglia, di cui aveva
tanto sentito parlare fin da bambino. Ma dopo qualche momento, voltandosi
indietro, vide all’orizzonte quella cresta frastagliata di montagne, vide
distinto e alto tra quelle il suo Resegone, si sentì tutto rimescolare il
sangue, stette lì alquanto a guardar tristamente da quella parte, poi
tristamente si voltò, e seguitò la sua strada. A poco a poco cominciò poi a scoprir
campanili e torri e cupole e tetti.(XI, 50-54)
Renzo entra in Milano per la porta Orientale e procede fino al centro della città, seguendo un percorso segnalato con precisione topografica (il convento dei Cappuccini, il duomo, la Corsia dei Servi, piazza Cordusio, via dei Mercanti), e poi segue nella sua fuga precipitosa un percorso a ritroso, dall’interno all’esterno, finché esce dalla città ancora attraverso la porta Orientale.L’attenzione alla porta, descritta sia nel momento dell’ingresso che in quello dell’uscita (XI, 58; XVI, 13), è spia dell’importanza del confine tra due mondi: la città è il “mondo altro”, il luogo dove scoppiano le contraddizioni, dominato dal personaggio collettivo di una folla che ha perduto la misura umana, il luogo dell’imbroglio e dell’inganno, della prova e della caduta di Renzo che, risucchiato come in un vortice, deve “divenir del mondo esperto”. La porta lo conduce in un “labirinto” reale e simbolico insieme, al centro del quale si colloca la prova da affrontare e dal quale non si può uscire senza l’aiuto del “filo di Arianna”. In letteratura spesso il labirinto è associato alla iniziazione dell’eroe protagonista: nel VI libro dell’Eneide la discesa di Enea agli inferi, tappa fondamentale del suo viaggio fatale, prende l’avvio dall’antro della Sibilla cumana, sovrastato dal tempio di Apollo fondato da Dedalo, che ne aveva istoriato le porte con la rappresentazione del labirinto cretese e delle vicende mitiche di Teseo e Arianna; anche Dante, perso nella “selva oscura”, smarrita la “diritta via”, dovrà “tenere altro viaggio” sotto la guida di Virgilio, attraversando la porta che rimarca con la celebre iscrizione la drammaticità del passaggio al mondo degli inferi (per me si va ne la città dolente, / per me si va ne l’etterno dolore, / per me si va tra la perduta gente).
Renzo entra in Milano per la porta Orientale e procede fino al centro della città, seguendo un percorso segnalato con precisione topografica (il convento dei Cappuccini, il duomo, la Corsia dei Servi, piazza Cordusio, via dei Mercanti), e poi segue nella sua fuga precipitosa un percorso a ritroso, dall’interno all’esterno, finché esce dalla città ancora attraverso la porta Orientale.L’attenzione alla porta, descritta sia nel momento dell’ingresso che in quello dell’uscita (XI, 58; XVI, 13), è spia dell’importanza del confine tra due mondi: la città è il “mondo altro”, il luogo dove scoppiano le contraddizioni, dominato dal personaggio collettivo di una folla che ha perduto la misura umana, il luogo dell’imbroglio e dell’inganno, della prova e della caduta di Renzo che, risucchiato come in un vortice, deve “divenir del mondo esperto”. La porta lo conduce in un “labirinto” reale e simbolico insieme, al centro del quale si colloca la prova da affrontare e dal quale non si può uscire senza l’aiuto del “filo di Arianna”. In letteratura spesso il labirinto è associato alla iniziazione dell’eroe protagonista: nel VI libro dell’Eneide la discesa di Enea agli inferi, tappa fondamentale del suo viaggio fatale, prende l’avvio dall’antro della Sibilla cumana, sovrastato dal tempio di Apollo fondato da Dedalo, che ne aveva istoriato le porte con la rappresentazione del labirinto cretese e delle vicende mitiche di Teseo e Arianna; anche Dante, perso nella “selva oscura”, smarrita la “diritta via”, dovrà “tenere altro viaggio” sotto la guida di Virgilio, attraversando la porta che rimarca con la celebre iscrizione la drammaticità del passaggio al mondo degli inferi (per me si va ne la città dolente, / per me si va ne l’etterno dolore, / per me si va tra la perduta gente).
Cammina, cammina; trova
cascine, trova villaggi, tira innanzi senza domandarne il nome; è certo
d’allontanarsi da Milano, spera d’andar verso Bergamo; questo gli basta per
ora. …I suoi pensieri erano, come ognuno può immaginarsi, un guazzabuglio di
pentimenti, d’inquietudini, di rabbie, di tenerezze; era uno studio faticoso di
raccapezzare le cose dette e fatte la sera avanti, di scoprir la parte segreta
della sua dolorosa storia, e sopra tutto come avean potuto risapere il suo
nome. ...
Ma ben presto, lo
studio più penoso fu quello di trovar la strada. Dopo aver camminato un pezzo,
si può dire, alla ventura, vide che da sè non ne poteva uscire. Provava bensì
una certa ripugnanza a metter fuori quella parola Bergamo, come se avesse un
non so che di sospetto, di sfacciato; ma non si poteva far di meno. Risolvette
dunque di rivolgersi, come aveva fatto in Milano, al primo viandante la cui
fisonomia gli andasse a genio; e così fece.
“ Siete fuor di strada, ” gli rispose questo; e, pensatoci un
poco, parte con parole, parte co’ cenni, gl’indicò il giro che doveva fare, per
rimettersi sulla strada maestra. Renzo lo ringraziò, fece le viste di far come
gli era stato detto, prese in fatti da quella parte, con intenzione però
d’avvicinarsi bensì a quella benedetta strada maestra, di non perderla di
vista, di costeggiarla più che fosse possibile; ma senza mettervi piede. Il
disegno era più facile da concepirsi che da eseguirsi.
La conclusione fu che,
andando così da destra a sinistra, e, come si dice, a zig zag, parte seguendo
l’altre indicazioni che si faceva coraggio a pescar qua e là, parte
correggendole secondo i suoi lumi, e adattandole al suo intento, parte
lasciandosi guidar dalle strade in cui si trovava incamminato, il nostro
fuggitivo aveva fatte forse dodici miglia, che non era distante da Milano più
di sei; e in quanto a Bergamo, era molto se non se n’era allontanato. Cominciò
a persuadersi che, anche in quella maniera, non se n’usciva a bene; e pensò a
trovar qualche altro ripiego. Quello che gli venne in mente, fu di scovar, con
qualche astuzia, il nome di qualche paese vicino al confine, e al quale si
potesse andare per istrade comunali: e domandando di quello, si farebbe insegnar
la strada, senza seminar qua e là quella domanda di Bergamo, che gli pareva
puzzar tanto di fuga, di sfratto, di criminale. (XVI, 14-20)
La fuga di Renzo passa attraverso il territorio della Martesana ricco di cultura e tradizioni conservate negli anni: come la storia del formaggio stracchino...
Il viaggio di Renzo è costellato dalle soste nelle osterie, che
si rivelano anch’esse, come la città, luoghi poco raccomandabili, disseminati
di trappole, dominati dal vociare scomposto degli avventori.La prima osteria dove trascorre la notte è ancora all’interno di
Milano ed è quella della Luna Piena, dove il simbolo luminoso dell’insegna è
contraddetto dalla luce ambigua e spettrale dell’interno, preludio a una nuova
notte di inganni.
Ed entrò in un
usciaccio, sopra il quale pendeva l’insegna della luna piena. … Due lumi a
mano, pendenti da due pertiche attaccate alla trave del palco, vi spandevano
una mezza luce. Molta gente era seduta, non però in ozio, su due panche, di qua
e di là d’una tavola stretta e lunga, che teneva quasi tutta una parte della stanza:
a intervalli, tovaglie e piatti; a intervalli, carte voltate e rivoltate, dadi
buttati e raccolti; fiaschi e bicchieri per tutto.(XIV, 19-21)
Qui Renzo si ubriaca e si mette a parlare a vanvera delle
ingiustizie subite, pur senza fare i nomi delle persone coinvolte; svela la sua
passione per la giustizia, ma la sua ragione è offuscata, tanto che non si
accorge di chi gli sta accanto, fraternizza coi ladri, vede nell’oste il solo
nemico e nella spia -lo sbirro in incognito- un amico, tanto che gli rivela il
suo nome. E’ sopraffatto dal gioco delle apparenze: lui che ha difeso il
vicario e Ferrer, è considerato un sovversivo sia dai violenti che siedono ai
tavoli che da coloro che difendono l’ordine costituito (l’oste e lo sbirro).
Così, mentre cade nella trappola della spia, è vittima di una rete di equivoci
in cui si smarrisce il suo slancio e il suo anelito alla giustizia.
In una località indefinita, dopo essere uscito da Milano, Renzo
si ferma poi in una osteria di campagna dove intende rifocillarsi e chiedere
indicazioni per dirigersi verso l’Adda, ma senza far trapelare che lo scopo è
attraversare il confine. Ha ormai imparato la lezione: accetta il cibo
dell’ostessa (lo stracchino) ma rifiuta il vino, risponde in modo evasivo alle
domande della vecchia sui fatti di Milano, infine chiede la strada per
Gorgonzola evitando di seguire la strada maestra.
Chiese un boccone; gli fu offerto un po’ di stracchino...Mentre cerca la maniera
di pescar tutte quelle notizie, senza dar sospetto, vede pendere una frasca da
una casuccia solitaria, fuori d’un paesello. Da qualche tempo, sentiva anche
crescere il bisogno di ristorar le sue forze; pensò che lì sarebbe il luogo di
fare i due servizi in una volta; entrò. Non c’era che una vecchia, con la rocca
al fianco, e col fuso in mano. Chiese un boccone; gli fu offerto un po’ di
stracchino e del vin buono: accettò lo stracchino, del vino la ringraziò (gli
era venuto in odio, per quello scherzo che gli aveva fatto la sera avanti); e
si mise a sedere, pregando la donna che facesse presto. ...
“ Devo andare in molti luoghi, ” rispose: “ e, se trovo un
ritaglio di tempo, vorrei anche passare un momento da quel paese, piuttosto
grosso, sulla strada di Bergamo, vicino al confine, però nello stato di
Milano... Come si chiama? ” — Qualcheduno ce ne sarà, — pensava intanto tra sè.
- Gorgonzola, volete
dire, - rispose la vecchia.
“ Gorgonzola! ” ripetè Renzo, quasi per mettersi meglio in mente
la parola. “ È molto lontano di qui? ” riprese poi.
“ Non lo so precisamente: saranno dieci, saranno dodici miglia. Se
ci fosse qualcheduno de’ miei figliuoli, ve lo saprebbe dire.
“ E credete che ci si possa andare per queste belle viottole,
senza prender la strada maestra? dove c’è una polvere, una polvere! Tanto tempo
che non piove! ”
“ A me mi par di sì: potete domandare nel primo paese che troverete andando a diritta. ” E glielo nominò.
“ A me mi par di sì: potete domandare nel primo paese che troverete andando a diritta. ” E glielo nominò.
“ Va bene; ” disse Renzo; s’alzò, prese un pezzo di pane che gli
era avanzato della magra colazione, un pane ben diverso da quello che aveva
trovato, il giorno avanti, appiè della croce di san Dionigi; pagò il conto,
uscì, e prese a diritta. E, per non ve l’allungar più del bisogno, col nome di
Gorgonzola in bocca, di paese in paese, ci arrivò, un’ora circa prima di sera.(XVI, 21-24)
Con l’accenno al vino, che Renzo prudentemente rifiuta, e al
pane ben diverso da quello che aveva trovato, il giorno avanti, appiè della
croce di san Dionigi,sembra che l’autore, quasi en passant e in
sordina, suggerisca una simbologia per così dire “rovesciata” del pane e del
vino, visti nei loro effetti perversi e non salvifici: nell’esperienza milanese
il vino è la causa dell’ubriachezza di Renzo che provocherà il suo arresto,
mentre i tre pani che il giovane raccoglie da terra quando entra in Milano
saranno la causa dell’equivoco per cui sia l’oste che le autorità si convincono
che abbia avuto un ruolo da leader nei tumulti e nell’assalto al forno delle
grucce. Questo pane di Renzo non può non richiamare per contrasto il “pane del
perdono” di fra Cristoforo, che il cappuccino aveva chiesto come viatico per il
viaggio dopo aver ottenuto il perdono dal fratello del signore da lui ucciso
(cap. IV).
La terza osteria, a cui è dedicata un’ampia sezione, è quella di
Gorgonzola. Qui Renzo intende informarsi della distanza dall’Adda, poiché aveva
sentito dire che per un certo tratto il fiume faceva da confine tra lo stato
milanese e il Veneto. Accetta dall’oste un boccone e una mezzetta di vino, ha
imparato la moderazione e si è riconciliato col vino. Alle domande dell’oste
risponde con grande accortezza: omette
di nominare Milano e dichiara di venire da Liscate (in effetti ci era
passato); gli chiede quanto dista Gorgonzola dall’Adda, ma non riesce a
raccogliere informazioni su passaggi alternativi a quelli usuali -Canonica, il
ponte di Cassano- perché l’oste si insospettisce.
L’affar più urgente era
di passarlo (l’Adda) ovunque si fosse. Se non gli
riusciva in quel giorno, era risoluto di camminare fin che l’ora e la lena
glielo permettessero: e d’aspettar poi l’alba, in un campo, in un deserto; dove
piacesse a Dio; pur che non fosse un’osteria.
Fatti alcuni passi in
Gorgonzola, vide un’insegna, entrò; e all’oste, che gli venne incontro, chiese
un boccone, e una mezzetta di vino: le miglia di più, e il tempo gli avevan
fatto passare quell’odio così estremo e fanatico. “ Vi prego di far presto, ” soggiunse:
“ perchè ho bisogno di rimettermi subito in istrada. ” E questo lo disse, non
solo perchè era vero, ma anche per paura che l’oste, immaginandosi che volesse
dormir lì, non gli uscisse fuori a domandar del nome e del cognome, e donde
veniva, e per che negozio... Alla larga! L’oste rispose a Renzo, che sarebbe
servito; e questo si mise a sedere in fondo della tavola, vicino all’uscio: il
posto de’ vergognosi.
“ Ma voi, non venite da Milano? ”
“ Vengo da Liscate, ” rispose lesto il giovine, che intanto aveva
pensata la sua risposta. Ne veniva in fatti, a rigor di termini, perchè c’era
passato; e il nome l’aveva saputo, a un certo punto della strada, da un
viandante che gli aveva indicato quel paese come il primo che doveva
attraversare, per arrivare a Gorgonzola.
“ Quanto c’è di qui all’Adda? ” gli disse Renzo, mezzo tra’ denti,
con un fare da addormentato, che gli abbiam visto qualche altra volta.
“ All’Adda, per passare? ” disse l’oste.
“ Cioè... sì... all’Adda. ”
“ Volete passare dal ponte di Cassano, o sulla chiatta di
Canonica? ”
“ Dove si sia... Domando così per curiosità. ”
“ Eh, volevo dire, perchè quelli sono i luoghi dove passano i
galantuomini, la gente che può dar conto di sè. ”
“ Va bene: e quanto c’è? ”
“ Fate conto che, tanto a un luogo, come all’altro, poco più, poco
meno, ci sarà sei miglia.”
“ Sei miglia! non credevo tanto, ” disse Renzo. “ E già, ” riprese
poi, con un'aria d'indifferenza, portata fino all'affettazione: “già, chi
avesse bisogno di prendere una scorciatoia, ci saranno altri luoghi da poter
passare? ”
“ Ce n’è sicuro, ” rispose l’oste, ficcandogli in viso due occhi
pieni d’una curiosità maliziosa. Bastò questo per far morir tra’ denti al
giovine l’altre domande che aveva preparate. Si tirò davanti il piatto; e
guardando la mezzetta che l’oste aveva posata, insieme con quello, sulla
tavola, disse: “ il vino è sincero?”. (XVI, 26-33)
Renzo riesce a eludere le domande incalzanti degli
avventori, curiosi dei fatti di Milano. L’arrivo di un mercante milanese
diretto a Bergamo, che era solito fermarsi in quell’osteria e ne conosceva gli
avventori, da una parte ha la funzione di informare sugli ultimi avvenimenti,
dall’altra porta al grottesco l’equivoco sul protagonista. Il mercante infatti
legge gli eventi dal suo punto di vista, quello del potere costituito che
protegge i suoi interessi, ed è fuorviato da dicerie e false notizie spacciate
come vere: i tumulti sarebbero l’esito di un complotto ordito da forestieri, in
ultimo dai francesi e dal cardinale Richelieu, contro gli spagnoli. Quella
mattina c’era stato un altro tentativo di dare l’assalto alla casa del vicario,
ma la strada era sbarrata dalle barricate e difesa dai soldati. La folla allora
si era riversata al forno del Cordusio, dove si distribuiva il grano a prezzo
calmierato, col proposito di darlo alle fiamme, ma la folla ne era stata
distolta da un croce che un uomo aveva appeso alle finestre, mentre dal duomo
uscivano tutti i monsignori in processione intenzionati a placare la furia del
popolo. Tra la sera precedente e la mattina parecchi facinorosi erano stati
catturati, i capi sarebbero stati impiccati. Avevano acchiappato anche un
forestiero con delle carte sospette, che, liberato dai suoi compari, era
fuggito non si sa dove. Le lettere, su cui era descritta tutta la cabala,
erano rimaste nelle mani della giustizia. Ovviamente il forestiero sarebbe
Renzo e le carte sospette la lettera di padre Cristoforo, che gli era stata
requisita al momento dell’arresto ma che poi il giovane era riuscito a
recuperare; spaventato da queste fake news, Renzo viene preso dalla
frenesia di allontanarsi dall’osteria e dal paese, ma prevale la prudenza, sa
che deve fingersi estraneo agli eventi e rimanere calmo per non destare
sospetti.
A questo punto, l’oste,
ch’era stato anche lui a sentire, andò verso l’altra cima della tavola, per
veder cosa faceva quel forestiero. Renzo colse l’occasione, chiamò l’oste con
un cenno, gli chiese il conto, lo saldò senza tirare, quantunque l’acque
fossero molto basse; e, senza far altri discorsi, andò diritto all’uscio, passò
la soglia, e, a guida della Provvidenza, s’incamminò dalla parte opposta a
quella per cui era venuto.(XVI, 61)
C’è un’ultima osteria nella quale Renzo, quando ormai ha
attraversato l’Adda ed è in salvo nel territorio di Bergamo, fa una sosta per
rifocillarsi prima di arrivare nel paese di Bortolo. Questa volta non si fa
cenno a ciò che accade all’interno dell’osteria, perché l’attenzione è
focalizzata sulla soglia, sulla scena della famiglia indigente che chiede
l’elemosina: il gesto di carità di Renzo, che uscendo si priva degli ultimi
danari, conferma che il suo viaggio, come il percorso di ogni uomo, è a
guida della provvidenza.
Entrò in un’osteria a
ristorarsi lo stomaco; e in fatti, pagato che ebbe, gli rimase ancor qualche
soldo.
Nell’uscire, vide,
accanto alla porta, che quasi v’inciampava, sdraiate in terra, più che sedute,
due donne, una attempata, un’altra più giovine, con un bambino, che, dopo aver
succhiata invano l’una e l’altra mammella, piangeva, piangeva; tutti del color
della morte: e ritto, vicino a loro, un uomo, nel viso del quale e nelle
membra, si potevano ancora vedere i segni d’un’antica robustezza, domata e
quasi spenta dal lungo disagio. Tutt’e tre stesero la mano verso colui che
usciva con passo franco, e con l’aspetto rianimato: nessuno parlò; che poteva
dir di più una preghiera?
“ La c’è la Provvidenza! ” disse Renzo; e, cacciata subito la mano
in tasca, la votò di que’ pochi soldi; li mise nella mano che si trovò più
vicina, e riprese la sua strada.
La refezione e l’opera
buona (giacchè siam composti d’anima e di corpo) avevano riconfortati e
rallegrati tutti i suoi pensieri. Certo, dall’essersi così spogliato degli
ultimi danari, gli era venuto più di confidenza per l’avvenire, che non gliene
avrebbe dato il trovarne dieci volte tanti. Perchè, se a sostenere in quel
giorno que’ poverini che mancavano sulla strada, la Provvidenza aveva tenuti in
serbo proprio gli ultimi quattrini d’un estraneo, fuggitivo, incerto anche lui
del come vivrebbe; chi poteva credere che volesse poi lasciare in secco colui
del quale s’era servita a ciò, e a cui aveva dato un sentimento così vivo di sè
stessa, così efficace, così risoluto? (XVII, 41-43)
L’arrivo all’Adda non è facile e diretto, ma è una strada “al buio”Ma riprendiamo il viaggio di Renzo dopo la sosta a Gorgonzola,
perché il momento più drammatico deve ancora venire. L’arrivo all’Adda non è
facile e diretto, ma è una strada “al buio” anche alla lettera: è notte e Renzo
procede a tentoni, allontanandosi gradatamente dai centri abitati per
inoltrarsi in zone disabitate e selvagge.
Quantunque, nel momento
che usciva di Gorgonzola, scoccassero le ventiquattro, e le tenebre che
venivano innanzi, diminuissero sempre più que’ pericoli, ciò non ostante prese
contro voglia la strada maestra, e si propose d’entrar nella prima viottola che
gli paresse condur dalla parte dove gli premeva di riuscire. Sul principio,
incontrava qualche viandante; ma, pieno la fantasia di quelle brutte
apprensioni, non ebbe cuore d’abbordarne nessuno, per informarsi della strada.
— Ha detto sei miglia, colui, — pensava: — se andando fuor di strada, dovessero
anche diventar otto o dieci, le gambe che hanno fatte l’altre, faranno anche
queste. Verso Milano non vo di certo; dunque vo verso l’Adda. Cammina, cammina,
o presto o tardi ci arriverò. L’Adda ha buona voce; e, quando le sarò vicino,
non ho più bisogno di chi me l’insegni. Se qualche barca c’è, da poter passare,
passo subito, altrimenti mi fermerò fino alla mattina, in un campo, sur una
pianta, come le passere: meglio sur una pianta, che in prigione. —
Ben presto vide aprirsi
una straducola a mancina; e v’entrò. A quell’ora, se si fosse abbattuto in
qualcheduno, non avrebbe più fatte tante cerimonie per farsi insegnar la
strada; ma non sentiva anima vivente. Andava dunque dove la strada lo
conduceva; e pensava. (XVII, 3-5)
I passi del suo cammino sono accompagnati da monologhi
interiori, ma ben presto smette di rimuginare sulle false notizie propalate dal
mercante nell’osteria perché subentra uno stato d’animo pieno di apprensione
per quel suo muoversi alla cieca, in solitudine, al freddo, senza poter più
contare sulle tracce della presenza umana. Nel lento avvicinamento all’Adda, la
natura diventa sempre più ostile e selvatica
finché, in un crescendo di orrore, Renzo si addentra in un bosco dove le
tenebre, l’incerta luce della luna e la brezza gelida deformano le figure degli
alberi; ma quando è ormai sul punto di cedere e si sta risolvendo a tornare
indietro, nel silenzio che lo avvolge sente la voce dell’Adda: è questo il
“filo di Arianna” che gli permette di uscire da questo secondo “labirinto”,
dall’esperienza traumatica della selva oscura. L’ amico rumore lo
aiuta a vincere i suoi fantasmi interiori, la paura che minacciava di bloccarlo
e di farlo tornare sui suoi passi.
Le tenebre, la
solitudine, la stanchezza cresciuta, e ormai dolorosa; tirava una brezzolina
sorda, uguale, sottile, che doveva far poco servizio a chi si trovava ancora
indosso quegli stessi vestiti che s’era messi per andare a nozze in quattro
salti, e tornare subito trionfante a casa sua; e, ciò che rendeva ogni cosa più
grave, quell’andare alla ventura, e, per dir così, al tasto, cercando un luogo
di riposo e di sicurezza.
Quando s’abbatteva a
passare per qualche paese, andava adagio adagio, guardando però se ci fosse
ancora qualche uscio aperto; ma non vide mai altro segno di gente desta, che
qualche lumicino trasparente da qualche impannata. Nella strada fuor
dell’abitato, si soffermava ogni tanto; stava in orecchi, per veder se sentiva
quella benedetta voce dell’Adda; ma invano. Altre voci non sentiva, che un
mugolìo di cani, che veniva da qualche cascina isolata, vagando per l’aria,
lamentevole insieme e minaccioso. Al suo avvicinarsi a qualcheduna di quelle,
il mugolìo si cambiava in un abbaiar frettoloso e rabbioso: nel passar davanti
alla porta, sentiva, vedeva quasi, il bestione, col muso al fessolino della
porta, raddoppiar gli urli: cosa che gli faceva andar via la tentazione di
picchiare, e di chieder ricovero. ...
Cammina, cammina;
arrivò dove la campagna coltivata moriva in una sodaglia sparsa di felci e di
scope. Gli parve, se non indizio, almeno un certo qual argomento di fiume
vicino, e s’inoltrò per quella, seguendo un sentiero che l’attraversava. Fatti
pochi passi, si fermò ad ascoltare; ma ancora invano. La noia del viaggio
veniva accresciuta dalla salvatichezza del luogo, da quel non veder più nè un
gelso, nè una vite, nè altri segni di coltura umana, che prima pareva quasi che
gli facessero una mezza compagnia. Ciò non ostante andò avanti; e siccome nella
sua mente cominciavano a suscitarsi certe immagini, certe apparizioni,
lasciatevi in serbo dalle novelle sentite raccontar da bambino, così, per
discacciarle, o per acquietarle, recitava, camminando, dell’orazioni per i
morti.
A poco a poco, si trovò
tra macchie più alte, di pruni, di quercioli, di marruche. Seguitando a andare
avanti, e allungando il passo, con più impazienza che voglia, cominciò a veder
tra le macchie qualche albero sparso; e andando ancora, sempre per lo stesso
sentiero, s’accorse d’entrare in un bosco. Provava un certo ribrezzo a
inoltrarvisi; ma lo vinse, e contro voglia andò avanti; ma più che s’inoltrava,
più il ribrezzo cresceva, più ogni cosa gli dava fastidio. Gli alberi che
vedeva in lontananza, gli rappresentavan figure strane, deformi, mostruose;
l’annoiava l’ombra delle cime leggermente agitate, che tremolava sul sentiero
illuminato qua e là dalla luna; lo stesso scrosciar delle foglie secche che
calpestava o moveva camminando, aveva per il suo orecchio un non so che
d’odioso. Le gambe provavano come una smania, un impulso di corsa, e nello
stesso tempo pareva che durassero fatica a regger la persona. Sentiva la brezza
notturna batter più rigida e maligna sulla fronte e sulle gote; se la sentiva
scorrer tra i panni e le carni, e raggrinzarle, e penetrar più acuta nelle ossa
rotte dalla stanchezza, e spegnervi quell’ultimo rimasuglio di vigore. A un
certo punto, quell’uggia, quell’orrore indefinito con cui l’animo combatteva da
qualche tempo, parve che a un tratto lo soverchiasse. Era per perdersi affatto;
ma atterrito, più che d’ogni altra cosa, del suo terrore, richiamò al cuore gli
antichi spiriti, e gli comandò che reggesse. Così rinfrancato un momento, si
fermò su due piedi a deliberare; e risolveva d’uscir subito di lì per la strada
già fatta, d’andar diritto all’ultimo paese per cui era passato, di tornar tra
gli uomini, e di cercare un ricovero, anche all’osteria. E stando così fermo,
sospeso il fruscìo de’ piedi nel fogliame, tutto tacendo d’intorno a lui,
cominciò a sentire un rumore, un mormorìo, un mormorìo d’acqua corrente. Sta in
orecchi; n’è certo; esclama: “ è l’Adda! ” Fu il ritrovamento d’un amico, d’un
fratello, d’un salvatore. La stanchezza quasi scomparve, gli tornò il polso,
sentì il sangue scorrer libero e tepido per tutte le vene, sentì crescer la
fiducia de’ pensieri, e svanire in gran parte quell’incertezza e gravità delle
cose; e non esitò a internarsi sempre più nel bosco, dietro all’amico rumore.
Arrivò in pochi momenti
all’estremità del piano, sull’orlo d’una riva profonda; e guardando in giù tra
le macchie che tutta la rivestivano, vide l’acqua luccicare e correre. Alzando
poi lo sguardo, vide il vasto piano dell’altra riva, sparso di paesi, e al di
là i colli, e sur uno di quelli una gran macchia biancastra,che gli parve dover
essere una città, Bergamo sicuramente.(XVII, 9-18)
Che notte, povero Renzo!
A questo punto il lettore tira un sospiro di sollievo e si
aspetta una rapida e felice conclusione dell’episodio: il nostro eroe ce l’ha
fatta, finalmente è fuori dal pericolo, si può voltar pagina. E invece no, il
passaggio è ritardato e Renzo deve tornare sui suoi passi per cercare un
ricovero per ciò che resta della notte, notte reale e metaforica che non è
ancora finita. Quello di Renzo è un viaggio non lineare ma lento e tortuoso,
alla ricerca come a tentoni di una strada che impone molti giri e che talvolta
procede avanti ma poi torna indietro prima di riprendere la direzione voluta. È
il viaggio della vita che ogni uomo percorre a guida della Provvidenza,
dove tuttavia la Povvidenza non elimina l’angoscia e la lotta, non è una
bacchetta magica che risolve repentinamente i problemi, ma si manifesta non
senza difficoltà attraverso circostanze
mutevoli e spesso oscure.
Scese un po’ sul
pendìo, e, separando e diramando, con le mani e con le braccia, il prunaio,
guardò giù, se qualche barchetta si movesse nel fiume, ascoltò se sentisse
batter de’ remi; ma non vide né sentì nulla. Se fosse stato qualcosa di meno
dell’Adda, Renzo scendeva subito, per tentarne il guado; ma sapeva bene che
l’Adda non era fiume da trattarsi così in confidenza. …
Gli venne in mente
d’aver veduto, in uno de’ campi più vicini alla sodaglia, una di quelle capanne
coperte di paglia, costrutte di tronchi e di rami, intonacati poi con la mota,
dove i contadini del milanese usan, l’estate, depositar la raccolta, e ripararsi
la notte a guardarla: nell’altre stagioni, rimangono abbandonate. La disegnò
subito per suo albergo; si rimise sul sentiero, ripassò il bosco, le macchie,
la sodaglia; e andò verso la capanna. Un usciaccio intarlato e sconnesso, era
rabbattuto, senza chiave nè catenaccio; Renzo l’aprì, entrò; vide sospeso per
aria, e sostenuto da ritorte di rami, un graticcio, a foggia d’hamac; ma non si curò di salirvi.
Vide in terra un po’ di paglia; e pensò che, anche lì, una dormitina sarebbe
ben saporita.(XVII, 18-20)
Prima di sdraiarsi Renzo si inginocchia e ringrazia la
Provvidenza di quel rifugio, poi dice le preghiere della sera. Ma un turbinio
di pensieri sugli eventi degli ultimi due giorni e la vergogna di aver tradito
la fiducia di padre Cristoforo cacciandosi nei guai gli impedisce di dormire.
Le uniche immagini che gli danno un po' di conforto in quel tormento sono una
barba bianca e una treccia nera.
Che notte, povero
Renzo! Quella che doveva esser la quinta delle sue nozze! Che stanza! Che letto
matrimoniale! E dopo qual giornata! E per arrivare a qual domani, a qual serie
di giorni! — Quel che Dio vuole, — rispondeva ai pensieri che gli davan più
noia: — quel che Dio vuole. Lui sa quel che fa: c’è anche per noi. Vada tutto
in isconto de’ miei peccati. Lucia è tanto buona! non vorrà poi farla patire un
pezzo, un pezzo, un pezzo! —
Tra questi pensieri, e
disperando ormai d’attaccar sonno, e facendosegli il freddo sentir sempre più,
a segno ch’era costretto ogni tanto a tremare e a battere i denti, sospirava la
venuta del giorno, e misurava con impazienza il lento scorrer dell’ore. Dico
misurava, perchè, ogni mezz’ora, sentiva in quel vasto silenzio, rimbombare i
tocchi d’un orologio: m’immagino che dovesse esser quello di Trezzo. E la prima
volta che gli ferì gli orecchi quello scocco, così inaspettato, senza che
potesse avere alcuna idea del luogo donde venisse, gli fece un senso misterioso
e solenne, come d’un avvertimento che venisse da persona non vista, con una
voce sconosciuta.(XVII, 26-27)
...Quel ciel di Lombardia, cos' bello quando è bello, così splendido, così in pace.
Finalmente, trascorsa la notte, alle prime luci dell’alba
riprende il cammino; non è più un viaggio al buio, il sentiero è ben
riconoscibile, le tenebre si sono diradate per far posto alle luci cangianti
del cielo, quel cielo di Lombardia, così bello quand’è bello, così
splendido, così in pace.
Quando finalmente quel
martello ebbe battuto undici tocchi, ch’era l’ora disegnata da Renzo per
levarsi, s’alzò mezzo intirizzito, si mise inginocchioni, disse, e con più
fervore del solito, le divozioni della mattina, si rizzò, si stirò in lungo e
in largo, scosse la vita e le spalle, come per mettere insieme tutte le membra,
che ognuno pareva che facesse da sè, soffiò in una mano, poi nell’altra, se le
stropicciò, aprì l’uscio della capanna; e, per la prima cosa, diede un’occhiata
in qua e in là, per veder se c’era nessuno. E non vedendo nessuno, cercò con
l’occhio il sentiero della sera avanti; lo riconobbe subito, e prese per
quello.
Il cielo prometteva una
bella giornata: la luna, in un canto, pallida e senza raggio, pure spiccava nel
campo immenso d’un bigio ceruleo, che, giù giù verso l’oriente, s’andava
sfumando leggermente in un giallo roseo. Più giù, all’orizzonte, si stendevano,
a lunghe falde ineguali, poche nuvole, tra l’azzurro e il bruno, le più basse
orlate al di sotto d’una striscia quasi di fuoco, che di mano in mano si faceva
più viva e tagliente: da mezzogiorno, altre nuvole ravvolte insieme, leggieri e
soffici, per dir così, s’andavan lumeggiando di mille colori senza nome: quel
cielo di Lombardia, così bello quand’è bello, così splendido, così in pace. ...
Passa i campi, passa la
sodaglia, passa le macchie, attraversa il bosco, guardando in qua e in là, e
ridendo e vergognandosi nello stesso tempo, delribrezzo che vi aveva provato
poche ore prima; è sul ciglio della riva, guarda giù; e, di tra i rami, vede
una barchetta di pescatore, che veniva adagio, contr’acqua, radendo quella
sponda.(XVII, 28-30)
Renzo chiede al pescatore di traghettarlo in cambio di denaro,
salta nella barca e aiuta a remare con vigore. Ma ancora una volta il passaggio
dell’Adda è stranamente rallentato e non viene
effettuato in linea retta ma in diagonale, perché la rapidità della
corrente impedisce un percorso diretto.
“ Adagio, adagio, ” disse il padrone; ma nel veder poi con che
garbo il giovine aveva preso lo strumento, e si disponeva a maneggiarlo, “ ah,
ah, ” riprese: “ siete del mestiere.”
“ Un pochino, ” rispose Renzo, e ci si mise con un vigore e con
una maestria, più che da dilettante. E senza mai rallentare, dava ogni tanto
un’occhiata ombrosa alla riva da cui s’allontanavano, e poi una impaziente a
quella dov’eran rivolti, e si coceva di non poterci andar per la più corta; chè
la corrente era, in quel luogo, troppo rapida, per tagliarla direttamente; e la
barca, parte rompendo, parte secondando il filo dell’acqua, doveva fare un
tragitto diagonale. Come accade in tutti gli affari un po’ imbrogliati, che le
difficoltà alla prima si presentino all’ingrosso, e nell’eseguire poi, vengan
fuori per minuto, Renzo, ora che l’Adda era, si può dir, passata, gli dava
fastidio il non saper di certo se lì essa fosse confine, o se, superato
quell’ostacolo, gliene rimanesse un altro da superare. Onde, chiamato il
pescatore, e accennando col capo quella macchia biancastra che aveva veduta la
notte avanti, e che allora gli appariva ben più distinta, disse: “ è Bergamo,
quel paese?”
“ La città di Bergamo, ” rispose il pescatore.
“ E quella riva lì, è bergamasca? ”
“ Terra di san Marco. ”
“ Viva san Marco! ” esclamò Renzo. Il pescatore non disse nulla.
Toccano finalmente
quella riva; Renzo vi si slancia;ringrazia Dio tra sè, e poi con la bocca il
barcaiolo; mette le mani in tasca, tira fuori una berlinga, che, attese le
circostanze, non fu un piccolo sproprio, e la porge al galantuomo; il quale,
data ancora una occhiata alla riva milanese, e al fiume di sopra e di sotto,
stese la mano, prese la mancia, la ripose, poi strinse le labbra, e per di più
ci mise il dito in croce, accompagnando quel gesto con un’occhiata espressiva;
e disse poi: “ buon viaggio, ” e tornò indietro. ...
Renzo si fermò un
momentino sulla riva a contemplar la riva opposta, quella terra che poco prima
scottava tanto sotto i suoi piedi. — Ah! ne son proprio fuori! — fu il suo
primo pensiero. — Sta’ lì, maledetto paese, — fu il secondo, l’addio alla
patria. Ma il terzo corse a chi lasciava in quel paese. Allora incrociò le
braccia sul petto, mise un sospiro, abbassò gli occhi sull’acqua che gli
scorreva a’ piedi, e pensò — è passata sotto il ponte! — Così, all’uso del suo
paese, chiamava, per antonomasia, quello di Lecco. — Ah mondo birbone! Basta;
quel che Dio vuole. (XVII, 32-37)
L'ultima tappa
L’esultanza di aver raggiunto la meta è mitigata dalla nostalgia
delle persone care che restano al di qua dell’Adda, per rivedere le quali Renzo
dovrà affrontare ancora molte prove e un nuovo, ultimo viaggio a Milano: questo
sarà la tappa più difficile e dolorosa del suo cammino, una vera discesa agli
inferi nella città infestata dalla peste, fin nel cuore della morte, il
lazzaretto, dove Renzo cerca Lucia disperando di trovarla viva. Ancora una
volta i suoi gesti sono fraintesi: Renzo viene creduto prima un untore e poi un
monatto. Nel lazzaretto si sciolgono gli ultimi nodi del romanzo: il padre
Cristoforo, già molto ammalato, guida Renzo al capezzale di don Rodrigo morente
e lo sollecita a perdonare il suo persecutore; infine Renzo nel quartiere delle
donne trova Lucia, guarita dalla peste, che il padre Cristoforo scioglie dal
voto di castità. Renzo risale alla vita: felice, come in sogno, esce da Milano
per tornare a Pescarenico sotto un
violento temporale che spazza via la peste; cammina tutta la notte senza mai
fermarsi e … sostare nelle osterie; torna la simbologia dell’acqua sotto la
forma della pioggia che suggerisce il tema della purificazione.
E vissero felici e contenti?
Date le premesse, sarebbe banale aspettarsi dai Promessi Sposi
una conclusione del tipo E vissero felici e contenti: pur essendoci un
lieto fine, al termine della storia non viene
ricostruito l’equilibrio originario da cui è ha preso le mosse la vicenda (quel
ramo del lago di Como), gli sposi non si fermano nella casa dove la
mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo, ma conoscono ancora
delusioni e amarezze nel paese di Bortolo, da dove si trasferiscono poi
stabilmente nelle vicinanze di Bergamo. Così anche l’ultima sequenza del
romanzo, come le prime due, si conclude con un moto di allontanamento dal paese
d’origine, immagine della instabilità della vita umana in cui si è compagni
di viaggio. E’ il “romanzo senza idillio”, secondo la celebre definizione
di Ezio Raimondi. Anche l’interpretazione complessiva del percorso di Renzo,
sempre in cammino, come il consueto “viaggio di formazione” dell’eroe protagonista,
è corretta ma non esaustiva. Renzo stesso, ragionando con Lucia sul senso delle
loro disavventure, riconosce alla fine che c’è qualcosa che sfugge alla
rassicurante coscienza dell’ ho imparato, ed è il mistero insondabile
del dolore innocente.
Il bello era a sentirlo
raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che ci aveva
imparate, per governarsi meglio in avvenire. “Ho imparato,” diceva, “a non
mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a non
alzar troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle
porte, quando c’è lì d’intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non
attaccarmi un campanello al piede, prima d’aver pensato quel che possa
nascere.” E cent’altre cose.
Lucia però, non che
trovasse la dottrina falsa in sè, ma non n’era soddisfatta; le pareva, così in
confuso, che ci mancasse qualcosa. A forza di sentir ripetere la stessa
canzone, e di pensarci sopra ogni volta, “e io,” disse un giorno al suo
moralista, “cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i
guai: son loro che sono venuti a cercar me. Quando non voleste dire,” aggiunse,
soavemente sorridendo, “che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene,
e di promettermi a voi.”
Renzo, alla prima,
rimase impicciato. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i
guai vengono bensì spesso, perchè ci si è dato cagione; ma che la condotta più
cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per
colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una
vita migliore. Questa conclusione, benchè trovata da povera gente, c’è parsa
così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la
storia. (XXXVIII, 66-69)